All’ospedale di Varese dove
sono stata io vi diranno che l’epidurale è un diritto.
È un centro d’eccellenza, di
quelli coi bollini rosa, eh. Non un posto qualunque.
Vi rassicureranno.
Vi faranno fare l’incontro
con gli anestesisti.
Vi terranno lì un’ora a
spiegarvi pro e contro.
Quando farete le domande e vi
accerterete che davvero quando chiederete l’epidurale ve la faranno, loro vi
diranno che sì, che è così.
Che c’è sempre un anestesista
di turno, libero, pronto a seguirvi.
Che basta essere sotto agli 8
centimetri di dilatazione per farla, e fa effetto in 20 minuti.
Che non ci saranno problemi.
Chiedi e ti sarà dato. O
meglio: ti sarà fatta.
Questo è quello che ti senti
dire.
Fino a che non arriva il
giorno del parto.
Tu arrivi in ospedale. Ti
monitorano, ti visitano.
Sei di 5 centimetri. Dici “voglio
l’epidurale”.
Ti dicono ok.
Ti portano in sala parto.
E lì poi non te la fanno.
Perché l’epidurale è un tuo
diritto fino a che non la chiedi.
Provate: succederà a moltissime
di voi.
A me è andata così, ma ho
notato che la procedura è stata simile per molte donne che hanno partorito in
quei giorni.
Tu arrivi, sei dilatata il
giusto, dichiari l’intento, e l’ostetrica di turno che ti prede in affido fa
melina (o meglio, per chi non se ne intende di termini calcistici da oratorio:
pirla in giro temporeggiando non si sa bene su cosa).
Il mio inferno in sala parto
è cominciato così: con un’epidurale fantasma in un’alba gelida del 13 gennaio
2014.
Arrivo in sala parto spinta
su una carrozzina. Mi hanno detto che mi fanno l’epidurale, che posso, non c’è
problema.
Sto già meglio all’idea
perché le contrazioni sono già forti, quindi non voglio perdere tempo.
L’infermiera che spinge la
sedia annuncia urlando a qualcuno in uno stanzino “abbiamo una partoanalgesia!”
E io già comincio a rilassarmi.
Meno male.
La sala parto è fredda, hanno
scordato le finestre aperte e io indosso solo una camiciola a maniche corte.
L’infermiera chiude tutto,
accende le luci.
Le dico che c’è molto
silenzio e mi spiega che ci sono giusto io e un’altra donna che sta partorendo.
Serata tranquilla.
Poi mi fa mettere sul
lettino, mi dice di aspettare l’ostetrica per la visita e mi lascia lì.
Difficile dire quanto sia
passato.
Fuori sento chiacchierare e
ridere.
Passa del tempo. Intanto
prego, giuro, prego che quel diavolo di anestesista arrivi.
Non voglio giocarmi l’unica
carta buona del mazzo: io un altro parto naturale non lo voglio fare.
Intendiamoci: quello di Emma è andato bene. Sono semplicemente state 10 ore di
inferno andata e ritorno. Un dolore mai vissuto. L’ho passato, sopportato,
controllato. Ma ho giurato che non voglio più sentire nulla del genere in vita
mia. Quindi dove cazzo è quell’anestesista?
Si palesa di nuovo
l’infermiera che vuole i vestiti del bimbo da mettere sotto la lampada per
scaldarli.
Gigi glieli dà.
Io chiedo “ma l’anestesista?”
“Eh, signora, prima la deve
visitare di nuovo l’ostetrica, ma stia tranquilla, è qui fuori”.
Ah, quindi è lei quella che sento
chiacchierare come se niente fosse. No, perché è passata almeno mezz’ora buona
e a me fa strano che ‘sta tizia ancora non si faccia viva. L’altra volta non
era stato così. L’altra volta le ostetriche erano state con me da subito. Senza
mollarmi un secondo.
Passa un tempo infinito. Finalmente
l’ostetrica si palesa: è la ragazza alta dall’accento siciliano coi capelli
neri e i riccioli a cavatappi che era lì con l’infermiera che mi ha fatto il
monitoriaggio.
È quella.
Va bene.
Ok.
“Come hai detto che ti
chiami?”
“Valentina”
Scrive non so cosa.
“Quando arriva il simpatico
anestesista?”- le chiedo
“Simpatico?! E chi ti ha
detto che sia simpatico?… No, prima ti devo visitare io, poi vediamo se
chiamarlo”
“Non farmi aspettare troppo,
voglio l’epidurale”
“Eeehhhh, stai tranquilla, che
tanto ti devo prima vedere io, non avere fretta”
Ed esce.
Di là comincia a sentirsi
trambusto, l’altra tizia che deve partorire sta urlando. Avrà almeno altre 3
persone al capezzale, visto la quantità di voci che la incitano.
L’ostetrica non torna.
È più il tempo che stiamo
passando da soli di quello in cui lei è qui.
Le contrazioni si fanno più
forti.
Cerco di concentrarmi, di
sfregare le mani e contare per controllare il dolore, cerco di pensare che
andrà bene, che è il secondo, e col secondo è tutto più facile.
Però ho una paura folle.
E non va bene. Non ho le
sensazioni giuste e questa tizia non va bene.
L’altra volta non è stato
così. Perché ci sta mettendo tanto? Perché insiste a lasciarmi sola?
Finalmente rientra. E mi visita.
“Come hai detto che ti
chiami?”
“Valentinaaaaaaah” riesco ad
emettere alla fine di una contrazione che mi sta davvero facendo del male.
“Va bene. Allora appena è
passata la contrazione ti visito, me lo dici tu quando posso”.
Aspetto che il male scemi e
le dò l’ok.
Lei entra forte ravanando.
L’unica cosa che sento indistinta è il liquido amniotico che improvvisamente
scende tra le mie gambe.
Cazzo, mi ha rotto il sacco
MI HA ROTTO IL SACCO! Senza dirmelo. Senza chiedermelo!
L’altra volta le ostetriche mi
avevano chiesto il permesso per farlo con un apposito bastoncino di legno. Te
lo chiedono, non è una manovra che possono decidere loro.
Invece lei l’ha fatto. Non mi
dice nulla. Non mi dice neanche “hai rotto le acque”. Cazzo, mi ha rotto il
sacco. Questo vuol dire che sarà tutto più veloce, in teoria, ma anche che le contrazioni
saranno molto più intense.
Ho quasi le lacrime agli
occhi. È una violenza questa, una violenza contro me e il mio bambino.
Ho voglia di piangere, ma non
devo, devo rimanere concentrata il più possibile.
“Voglio l’epidurale” riesco a
gemere tra i respiri affannati.
“Eh, sai mi dispiace ma ormai
sei di otto centimetri e non ha senso farla. Fa effetto in un’ora e in un’ora
il bimbo è già nato. Guarda, ora se ti va spingi, alzi la gamba così e spingi”
Sono su un fianco
completamente impossibilitata a muovermi. Riesco giusto a tenermi su la gamba a
mo’ di cane che piscia. Ma è durissima. E il dolore intensissimo.
“Spingi bene quando senti che
proprio non ne puoi fare a meno”
Mi segue in un paio di
spinte, poi si alza e va nell’altra stanza dove la tizia ancora urla.
Mi molla così, a metà di una
spinta dolorosissima.
Esce e non torna per un po’.
Nei momenti in cui respiro
quasi piango.
“Non me lo voglio fare l’inferno
andata e ritorno. Io ero arrivata in tempo” piagnucolo a Gigi che non sa cosa
fare, cosa dire. Impotente tanto quanto me.
Arrivano altre spinte. Ho i
crampi alla coscia. Non riesco più a tenere quell’assurda posizione.
Neanche se Gigi mi tiene la
gamba.
Arriva una contrazione
dolorosissima. Ho la sensazione che mi strappino le budella da dietro.
Urlo “MI VIENE DA
SPINGEREEEEEEEEEEEEEE” e penso che davvero il bimbo uscirà in quel momento.
Invece nulla.
Il mio intestino è ancora al
suo posto. La mia pancia anche.
Di là la tizia che il
drappello sta incitando finalmente spara fuori il neonato che piange.
Beata lei.
Ha finito di star male.
L’ostetrica torna. Non riesco
a capire quanto tempo sia passato, e soprattutto perché insista a stare fuori
di qui.
Io tremo. Mi dice che è
normale, sono i tremori del parto.
No, non ha capito. Io sono
terrorizzata. Terrorizzata.
Si decide a farmi spostare.
Mi mette sullo sgabello.
Non so. Con Emma avevo avuto
sensazioni più precise.
Sentivo come mi andava di
mettermi. Avevo passato tantissimo tempo seduta perché mi faceva stare bene.
Qui ogni cosa è sbagliata, non riesco a concentrarmi. Non riesco a sentire
nulla di bello, di positivo, di incoraggiante.
“Senti… mh…”
non si ricorda il mio nome.
Per l’ennesima volta non se lo ricorda.
Io il suo si, dal primo
momento.
Nadia cazzo. Ti chiami Nadia.
E stai sicura che non me lo
scordo finché campo.
“Adesso stiamo un po’ così e
spingiamo, eh!”
Sono io che spingo, non tu.
IO.
A ogni contrazione urlo.
Non riesco a controllare il
respiro e il dolore come col parto di Emma.
In tutto il genio
dell’ostetricia qui davanti non mi ha rassicurato neanche una volta.
Non una sola, singola,
illuminante parola sul coraggio, sul resistere. Mi ha solo detto di non urlare
che non serve.
Fino ad ora si è limitata a
dire spingi.
E grazie al cazzo.
Durante le spinte faccio
anche la cacca un paio di volte.
“Gli cagherò in testa a ‘sto
figlio” annuncio.
“No, è solo che stai
spingendo bene. Poi non ti preoccupare, noi ci siamo abituate.”
No, non ha capito che io
davvero non sono preoccupata per lei.
Ma proprio per niente. Anzi.
Sono contenta di mollargli secchiellini di feci e pipì da pulire. È la mia
vendetta primordiale. Infantile. Subdola e ghignante.
L’unica arma che il mio corpo
mi concede contro quella donna che mi sta facendo solo del male da ore.
Perché è così, sono passate
ore da quando sono qui.
È passata più di un’ora da
quando mi ha detto che non poteva farmi l’epidurale… quindi me ‘avesse fatta a
quest’ora avrebbe fatto effetto.
Non ne ha imbroccata una.
Infila una mano dentro dopo
l’ennesima spinta dolorante.
Urlo e mi dice di stare zitta,
che non serve.
Chiedo se è sceso.
“Mh.”
Che cazzo di risposta è ‘Mh’?
Un centimetro, una manciata
di millimetri è una risposta. Non ‘mh’.
Di nuovo qualche minuto dopo
stessa cosa. Spinta che mi sventra e lei che misura.
Quindi?
“Qualcosina” mi dice. O
meglio: mi accontenta.
Poi si alza, va dietro il
paravento a chiacchierare con un’altra tizia.
E la sento dire “è ancora
alto”
A quel punto mi parte
l’ansia. Due ore. Sto spingendo da due ore secche seduta sullo sgabello.
E questo non scende.
Basta.
BASTA.
L’ho già vissuto nel mio
primo parto una cosa così con Emma che non scendeva, ma dopo due ore era
andata. Questo non ne vuole sapere, me lo sento.
Ci sono passata e lo so.
Allora comincio a urlare.
“Fatemi il cesareo!”
“Ma che dici? E ti pare che son cose da dire? Dai, fai la brava”
“Non faccio la brava! Voglio
il cesareo!”
“Ma smettila e non urlare e
adesso spingi”
“NON SPINGO! HO DETTO CHE NON
SCENDE! E’ GROSSO E NON SCENDE CAPITO? NON SCENDE! NON STA SCENDENDO! STO COSì
DA DUE ORE NON SCENDEEEEE”
“Piantala di fare i capricci
e spingi ancora una mezz’ora”
Ma sta scema ha idea di cosa
sia mezz’ora di inferno?
“NOOOOOO! FATEMI IL CESAREO!
Te lo chiedo per favore, te lo sto chiedendo per favoreeee. NON SCENDEEEEEEEE.”
Sulla porta si palesa uno coi
baffetti, piccoletto.
“Chi è quello?”
Mi dice il nome del medico e
mi dice che è l’anestesista. Cazzo, allora l’uomo dei sogni esiste, e dove l’hanno
tenuto nascosto fino adesso?
L’uomo chiede a una tizia lì
accanto perché non mi accontentano.
Allora si può fare, Allora
forse ho ragione.
Urlo ancora di più. L’ostetrica
si innervosisce.
Mi strattona e mi mette in
piedi.
Io ho le gambe bloccate.
Sto urlando, non ho più
contegno.
Piango, supplico e urlo tutto
insieme.
“Piantala e vai sul lettino. Su!
Muovi ‘ste gambe”
Ma le mie gambe non si
muovono. Sono in piedi e non riesco a fare un passo. Sono di legno. Di gesso.
Di marmo. Non lo so. Sono tutto tranne che carne.
Ma ho le doglie.
L’ostetrica mi urla dietro
come se fossi una bambina scema.
Mi trascina in qualche modo
fino al lettino. La stanza si è improvvisamente riempita di gente. E dove
cavolo erano tutte queste persone? Dove stavano mentre avevo bisogno di
assistenza?
Tutte sono lì per convincermi
che devo spingere ancora.
Tutte ce l’hanno con me.
Improvvisamente compare una
dottoressa. Non si presenta. Non conosco il nome. Avrà sui quarant’anni e i
capelli ramati, tipo saggina, raccolti in una coda.
Sto continuando a urlare
imperterrita che voglio il cesareo e cazzo me lo devono fare.
“Oh! Che parole!”
La saggina mi dice “Signora
lei si sta comportando in maniera inaccettabile! Io non tollero che mi si dica
cosa fare! Ho 17 anni di esperienza e non esiste che si facciano cesarei in
questo modo. Lei sicuramente partorirà un bambino grosso tanto quanto il
precedente”
“NON E’ VERO! C’E’ LA CARTA
DELLA MIA GINECOLOGA CHE DICE CHE E’ GROSSO E ANDAVA FATTA LA VISITA”
“E perché non l’ha fatta?”
(ma dico, siamo al ridicolo?)
“NON L’HO FATTA PERCHE’
DOVEVO FARLA A TERMINE TRA 5 GIORNI! C’E’ SCRITTO CHE E’ GROSSO!”
Si gira verso Gigi furibonda
“E Lei non le dice nulla?!”
“Cosa le devo dire? Guardate
come la state trattando!” la rimpalla Gigi, più disarmato di me.
“Vada sul lettino, si muova
che la devo visitare! Non si fa nulla se non si fa visitare!”
Anche le ostetriche tentano
di mettermi sul lettino per la fantomatica visita.
Continuo a urlare, inarco la
schiena. Sono intrattabile, strillo ormai senza tregua.
Qualcuno mi caccia due dita
dentro, tutte mi insultano perché non si fa così, perché è inaccettabile,
perché io non devo comportarmi a questo modo. A me sembra di morire.
Non è una sala parto, è una
macelleria messicana e mi lasceranno qui a sventrarmi senza fare nulla.
Ma dove sono capitata? Dove?
Poi la dottoressa saggina si
convince con un “va bene, facciamo questo intervento inutile”
Mi infilano un catetere
urlandomi di non fare storie, che milioni di donne sopportano il fatto che le
si metta un catetere. Poi mi fanno spostare su una lettiga nel bel mezzo di una
contrazione.
Chiedo un attimo per
respirare e la risposta è lapidaria.
“Eh, no bella, adesso non c’è
più tempo. Muoviti!”
Salgo sulla lettiga, mi
portano in sala operatoria.
Qualcuno mi chiede se voglio
la spinale o se voglio essere addormentata.
“Addormentata” dico.
Mi legano le braccia stese e
le gambe chiuse.
Non so più come fare a
resistere al dolore delle contrazioni.
Il medico coi baffetti mi
mette una mascherina vicino. Vedo teli verdi stesi. L’ostetrica stronza che è
sulla porta e parla con altri. Intravedo il medico che mi ha visitata
all’inizio, ci sono altre persone, forse assistenti. Non so.
L’anestesista mi chiede se ho
fatto altre anestesie totali, dico di si, altre tre e tutte andate benissimo.
Finalmente mi mette la
mascherina sulla bocca, inspiro ed espiro e si fa il buio mentre del
disinfettante freddo mi passa sulla pancia.
4 chili e 330 grammi.
Giovanni è nato al di sopra
di qualunque stima.
Sul referto medico c’è
scritto “cesareo per mancato impegno” ovvero che il piccolo non si sarebbe mai
incanalato. Non sarebbe nato.
4 chili e 330 grammi.
Andava fatto per forza un
cesareo.
4 chili e 330 grammi.
Ben al di sopra dei 3 chili e
610 grammi di sua sorella.
Avevo ragione io.
Non sarebbe sceso.
Non ce l’avrei fatta.
E lui era grosso. Forse con
un’epidurale. O forse neanche con quella.
Fatto sta che avevo ragione
io.
Stronze.