31/03/13

Napolitano, perché noi no?



10. 10 uomini 10. Perché per le donne non c’è posto.
Perché anche se siamo il 54% della popolazione, noi non contiamo.
10. 10 saggi. Perché le donne non sono sagge, al massimo sono vecchie.
10 maschi 10. Come i California Dream Men. Solo dalle attributi probabilmente più penduli. 10 quasi come a calcio.
10. 10 di loro, perché di noi non ne vogliono sapere.
10 col pisello, perché guai a far un ragionamento con le femmine.
Guai a metterci le donne in quella fatidica decina.
10.
10 uomini che non rappresentano le donne.
E se vi domandate se sia così importante che solo il genere faccia la differenza, la risposta è sì.
Perché quel mucchietto d’ossa (e di peni) non mi rappresenta.
Perché voglio anche persone del mio genere e del mio sesso.
Perché anche le donne sono un parte fondamentale del paese e sono stanca di vedere con quanta sfacciataggine ancora nulla ci venga riconosciuto.
10.
E neanche uno che abbia il buon gusto di dire “lascio perché ci deve essere spazio per una donna”.

Se le donne ci fossero, farebbero la differenza. Ci siamo. Ma siete voi che non ci fate partecipare.
Siete voi che quando bisogna fare le squadre non ci scegliete.
Siete voi che cambiate le regole.

10 uomini che non ci rappresentano.


Tra i dieci “saggi” non ce n’è nessuno che valga quanto il buonsenso di una donna.

Sogno una lobby tutta la femminile che cambi le cose. E che faccia finire questo stupido gioco.
“vengo anch’io?” “No, tu no”.

Napolitano, perché noi no?

19/03/13

La prof.



Insegnare.
Insegnare è una delle cose più difficili. Sono alla fine del corso di comunicazione.
Ho fatto circa una quarantina di ore.
Insegno a ragazzi giovani. Hanno dai 20 ai 29 anni.
Io a 20 anni lavoravo già in agenzia. Ho avuto obiettivi diversi Sapevo quello che volevo: l’indipendenza. Volevo andarmene di casa. Volevo togliermi da lì. Volevo farcela da sola.
Ero disposta a tutto pur di farlo. E così quelli come me. Pochissimi del mio corso sono rimasti a Varese. Nessuno ci voleva stare. Siamo andati tutti a Milano, perché era lì il lavoro, lì l’avventura, lì la formazione migliore.
Per una come me che a Milano ci è andata per la prima volta a 22 anni per un colloquio di lavoro è stato un grande salto.
E sono felice di averlo fatto.
Ora invece è diverso. Loro sono diversi.
Mi sembra che si siano già arresi.
Mi sembra che abbiano paura, e allora meglio neanche provarci prima di prendersi qualche porta in faccia, meglio non bussare neanche.
Li vedo arrabbiati. E ho la sensazione che cerchino sempre di dare la colpa a qualcuno.
Qualcuno contro cui puntare il dito. Qualcun altro. Non loro.
Non so di chi siano figli. Non so che genitori abbiano. Non so molto di loro.
Vedo quello che fanno, come si comportano.
C’è quello che tra meno di un mese diventa padre e non ha assolutamente idea di quello che gli sta per piombare addosso.
C’è quella complessata, dalla vita difficoltosa, che neanche ci prova a fare quello che deve. Peccato, perché ha talento, ma io sono della teoria che non sono una baby sitter e faccio già da mamma a mia figlia. Quindi se vogliono qualcosa dalla vita ci devono dare dentro loro. Qui non si fanno sconti.
Ci sono quelli trasparenti, e ti rendi conto che ci sono solo quando fai l’appello.
Ci sono quelli che si impegnano tantissimo, peccato che davvero non ci sia trippa per gatti.
Poi ci sono quelli molto capaci, ma davvero. Che pensano di aver capito tutto e neanche si presentano più in classe perché credono di non aver più nulla da imparare.
Peccato che si siano persi l’ultimo lavoro- quello più grosso, con un cliente vero- che potrebbe dar loro un posto di lavoro.
Ma tanto è a Milano, e loro preferiscono lavorare sotto casa.
Si, forse non li ho capiti. Forse ho delle aspettative troppo alte.
Non so.
Fatto sta che questo corso finisce e sento che loro non mi mancheranno.
Andranno per il modo portandosi dietro forse qualche mio insegnamento.
Forse l’unica cosa che rimarrà sarà “Che palle quella stronza della Maran”.

08/03/13

Prima di tutto donna.




Una cosa che non voglio fare e mai farò è dire “Sono la Mamma di” qualificandomi in virtù della figlia che ho.
Sono Valentina. Prima di tutto Valentina.
Sono Valentina e sono una professionista.
Sono una donna che lavora.
Ci ho messo anni a costruire la mia carriera, i miei successi, quello che so fare.
Mia figlia è semplicemente una parte della mia vita. Importante, certo, ma non tutto.
Non è la parte migliore di me. È un’altra cosa.
Accessoria, bellissima, ma un’altra cosa.
Quindi vi prego, per la festa della donna fatemi questo regalo: non urlate al mondo che da quando siete mamme avete capito che l’unica cosa per cui siete nate era fare le mamme. Perché è un’offesa a voi stesse, alla vostra cultura, a quello che avete costruito.
Poi siamo d’accordo che i figli son pezzi di cuore. Ma sono anche fette di culo, di anima e di fatica.
E ci avete messo anni a diventare la cosa che siete.
È bellissimo avere figli. Ok. Ma è bellissimo anche avere una qualifica sul biglietto da visita, una reputazione di prim’ordine e poter dare a quei figli degli ottimi motivi per essere orgogliosi di voi. E quell’orgoglio secondo me non può essere solo derivante dal fatto che cucinate bene lo strudel o non stingete loro i calzini.
Partorire non può essere l’unico motivo per avere un senso nella vita. È una fase. Intensa, ma semplicemente una fase.
Io voglio prima o poi sentir dire a Emma “la mamma è in gamba, fa un lavoro bellissimo. E io sono contenta che sia così”.
Io lo strudel non lo faccio. E ‘sti cazzi.



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